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Gli usi civici sono una categoria giuridica complessa che comportano numerose problematiche in sede di circolazione immobiliare.
Nel Medioevo la terra rappresentava l’unico elemento per il sostentamento delle popolazioni. A tal fine, i proprietari terrieri concedevano ai cittadini il diritto di coltivare una porzione di terreno e di trarne i frutti necessari per il fabbisogno e, al contempo, questi ultimi, si obbligavano a versare al proprietario terriero un canone, un utilità o un servizio, che, nella maggior parte delle ipotesi, era rappresentato da una parte dei frutti raccolti.
In tal modo, veniva a configurarsi il diritto perpetuo del concedente (il proprietario terriero) alla riscossione del canone ed il diritto perpetuo di godimento dei cittadini utilizzatori.
Accadeva, inoltre, che il concedente, in alcuni casi, rinunciasse a porzioni di terreno in favore di un determinato gruppo di cittadini, individuati sulla base di criteri territoriali, i quali divenivano collettivamente titolari della porzione di terreno, realizzando una sorta di comproprietà, le cui facoltà di godimento erano varie: ad esempio diritto di semina, di pascolo, di bosco, di legnatico, di fungatico.
Da qui la differenza tra usi civici gravanti su terreni di proprietà privata e usi civici gravanti su terreni spettanti collettivamente ad un gruppo di cittadini (cc.dd. domini collettivi o della collettività).
La situazione descritta è rimasta immutata fino al 1927, quando è avvenuta la prima codificazione degli usi civici. Infatti, la Legge n. 1766 del 1927, e il successivo regolamento di esecuzione R.D. n. 332 del 1928, sono stati i primi atti legislativi aventi ad oggetto la disciplina dell’accertamento, della liquidazione (ossia il procedimento con cui è possibile affrancare le terre private da qualsiasi onere), della destinazione delle terre pubbliche gravate da usi civici (cc.dd. domini della collettività) e della competenza del commissario regionale per gli usi civici.
Tuttavia, né tale normativa, né le numerose sentenze della Corte di Cassazione[1], hanno espressamente chiarito la natura giuridica degli usi civici[2], limitandosi ad affermare il regime giuridico ad essi applicabile: incommerciabilità, inusucapibilità, imprescrittibilità, nonché immodificabilità della destinazione delle terre gravate da uso civico.
Sulla base di ciò, il primo problema da porsi in sede di circolazione immobiliare è il riconoscimento dell’esistenza degli usi civici.
Come accennato, però, la maggior parte degli usi civici sono nati da comportamenti di fatto, senza l’adozione di atti formali idonei a dare adeguata pubblicità al fenomeno. Inoltre, non è mai stato istituito (e non esiste tuttora) un pubblico registro nel quale poter individuare i terreni gravati da usi civici, né una procedura chiara, precisa ed affidabile per l’accertamento di tali diritti.
Attualmente, le uniche fonti munite di certezza giuridica possono rinvenirsi nelle sentenze di accertamento dei commissari regionali per gli usi civici rese in sede di contenzioso.
Per ovviare a tale problematica, alcuni commissari regionali hanno adottato le seguenti soluzioni operative:
Tuttavia, nella maggior parte delle ipotesi, queste soluzioni operative non sono sufficienti. Si pensi al caso in cui non venga rilasciato il CDU: l’articolo 30, quarto comma, d.P.R. 380/2001 (Testo Unico dell’Edilizia)[3] prevede la possibilità di stipulare l’atto notarile anche nel caso di mancato rilascio del CDU, decorsi trenta giorni dalla richiesta, mentre l’ultimo comma del medesimo articolo prevede specifiche ipotesi di esenzione. Per di più, nel caso di rilascio del CDU, ma senza alcuna dichiarazione di esistenza/inesistenza degli usi civici, le parti si troverebbero nella stessa situazione di incertezza. Infatti, essendo gli usi civici imprescrittibili, diventa fondamentale non solo una dichiarazione di esistenza ma, soprattutto, una dichiarazione di inesistenza degli stessi[4]!
Nondimeno, debito conto deve darsi al principio di presunzione di demanialità civica, espresso dalla Corte di Cassazione[5], con conseguente onere della prova a carico del privato che eccepisce l’inesistenza degli usi civici. Infatti, soprattutto in presenza di domini collettivi[6], un forte indice di demanialità civica risulta dall’intestazione catastale del terreno in favore del Comune, dell’Università Agraria o di altra Associazione di coltivatori, in qualità di portatori degli interessi del gruppo di cittadini titolari dell’uso civico gravante su quel determinato terreno.
A questo punto, è opportuno analizzare il regime giuridico che differenzia gli usi civici gravanti su terre di proprietà privata dagli usi civici gravanti su terre di dominio della collettività.
Per quanto attiene ai primi, essi non impediscono la circolazione dei terreni di proprietà privata su cui gravano: nessuna norma, infatti, ne prevede l’incommerciabilità, ma il terreno, in assenza di “liquidazione”, continuerà ad essere gravato dall’uso civico.
La liquidazione è una procedura disciplinata dalla Legge n. 1766/1927 e dal relativo regolamento di attuazione n. 332 del 1928. In sintesi, essa può avvenire mediante lo scorporo di una parte del terreno in favore del Comune, oppure con l'imposizione di un canone di natura enfiteutica, a sua volta affrancabile mediante il versamento di una somma “una tantum” pari a venti volte l'importo del canone. In tale ultimo caso, la determinazione di affrancazione emessa dal competente ufficio comunale, dovrà essere oggetto di idonea pubblicità per rendere edotti i terzi acquirenti dell’estinzione del vincolo. Pertanto, sarà necessario recepire la determinazione di affrancazione in un atto pubblico notarile, al fine della trascrizione nei pubblici Registri Immobiliari.
In assenza di liquidazione, invece, sarà opportuno rendere edotta la parte acquirente dell’esistenza dell’uso civico gravante sul terreno, in modo da poter regolare pattiziamente la fattispecie mediante l’inserimento di apposite clausole contrattuali all’interno dell’atto pubblico notarile.
Una disciplina diversa è prevista per gli usi civici gravanti su terre di dominio della collettività.
L’opinione giurisprudenza ha costantemente assimilato queste terre “collettive” ai beni demaniali[7], applicando, conseguentemente, il regime giuridico previsto per questi ultimi: inalienabilità, inusucapibilità e imprescrittibilità.
Pertanto, tali terreni non possono essere oggetto di disposizione se non nei modi e nei limiti fissati dalla legge. E infatti, la Legge n. 1766 del 1927 prevede una peculiare regolamentazione in merito:
Il quadro normativo sopra descritto è stato innovato con l’entrata in vigore della Legge n. 42/2004 (Codice dei beni culturali) e, in ultimo, della Legge n. 168/2017 (Norme in materia di domini collettivi).
Difatti, mentre l’articolo 142 del Codice dei Beni Culturali prevede che “sono comunque di interesse paesaggistico e sono sottoposti alle disposizioni di questo Titolo:…h) le aree assegnate alle università agrarie e le zone gravate da usi civici”, l’articolo 3 della Legge n. 168/2017 recita: “l'ordinamento giuridico garantisce l'interesse della collettività generale alla conservazione degli usi civici per contribuire alla salvaguardia dell'ambiente e del paesaggio. Tale vincolo è mantenuto sulle terre anche in caso di liquidazione degli usi civici”.
In altri termini, tutti i terreni gravati da usi civici costituiscono elemento fondamentale del patrimonio ambientale, la cui salvaguardia è affidata unicamente all’ordinamento statale.
Questa disciplina si ripercuote sui terreni gravati da usi civici nel modo seguente:
Inoltre, anche in seguito all’affrancazione e all’autorizzazione, i terreni continueranno ad essere sottoposti al vincolo paesaggistico-ambientale.
Di notevole interesse notarile sono anche i numerosi fenomeni di utilizzazione edificatoria dei terreni gravati da usi civici.
Infatti, una serie di leggi regionali, successivamente dichiarate incostituzionali, consentiva la modifica della destinazione d’uso delle terre civiche in conseguenza di una sopravvenuta edificazione sulle stesse.
Il meccanismo previsto dalle leggi regionali faceva leva sull’istituto della legittimazione, attualmente in vigore, e disciplinato dagli articoli 9 e 10 della Legge n. 1766/1927, la cui ratio è quella di privilegiare chi, sebbene abbia occupato “sine titulo” una porzione di terreno gravata da uso civico, abbia apportato evidenti migliorie per il tramite di una coltura agraria.
Difatti, le condizioni per la legittimazione sono:
Intervenuta la legittimazione da parte del commissario regionale per gli usi civici, il terreno sarà da considerare come ogni altro terreno privo di oneri o vincoli di sorta.
Sulla base di ciò, le normative regionali sono intervenute ampliando i presupposti per l’applicabilità di tale istituto. Ad esempio, la Legge Regionale del Lazio n. 1/1986 prevedeva che “I comuni, le frazioni di comuni, le università e le associazioni agrarie comunque denominate possono alienare i terreni di proprietà collettiva di uso civico… a condizione che le costruzioni siano state legittimamente realizzate o che siano condonate ai sensi della normativa vigente in materia di sanatoria di abusi edilizi, mentre la Legge Regionale dell’Abruzzo n. 25/1988, della Calabria n. 34/2010 e della Sardegna n. 23/1985, consentivano il cambiamento della destinazione d’uso delle terre civiche anche in assenza dei presupposti di legge.
In altri termini, in forza di questa legislazione regionale, i terreni, contestualmente al cambiamento della destinazione d’uso, venivano “sclassificati” in assenza dei requisiti previsti dagli articoli 9 e 10, Legge n. 1766/1927 e, soprattutto, senza un previo controllo di compatibilità da parte dello Stato. Difatti, il vincolo paesaggistico-ambientale rientra nella competenza esclusiva dello Stato e la sua rimozione può avvenire solo in forza di una legge statale.
Va rilevato, tuttavia, che alcune delle citate Leggi Regionali sono state dichiarate incostituzionali[10], in quanto, legiferando in una materia dell’ordinamento civile di esclusiva competenza dello Stato, consentivano l’alienazione delle terre gravate da usi civici al di fuori delle ipotesi previste dalla Legge n. 1766/1927 e dal R.D. n. 322/1928.
In seguito alle declaratorie di incostituzionalità, gli operatori del diritto si sono posti il problema dell’efficacia degli atti compiuti durante la vigenza delle citate Leggi Regionali.
Infatti, se è indubbio che una legge debba essere applicata fintantoché non venga dichiarata incostituzionale, più complicata è la sorte dei terreni “sclassificati” sulla base di disposizioni successivamente dichiarate incostituzionali.
Il problema deriva dal fatto che l’asserito regime di imprescrittibilità degli usi civici va analizzato alla luce dell’efficacia retroattiva delle pronunce di incostituzionalità.
Infatti, l’art. 30 della Legge n. 87/1953 (“Le norme dichiarate incostituzionali non possono avere applicazione dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione”), viene pacificamente interpretato nel senso che la declaratoria di incostituzionalità ha efficacia anche relativamente ai rapporti giuridici sorti anteriormente, purché ancora pendenti e non esauriti, per tali dovendosi intendere quei rapporti per i quali non siano decorsi i termini di prescrizione o decadenza per l’esercizio dei relativi diritti, e per i quali non si sia formato il giudicato.
Logica conseguenza di tale interpretazione, allora, dovrebbe essere che:
Purtroppo, per quanto attiene questo annoso problema, l’unica sentenza in materia, successiva alle dichiarazioni di incostituzionalità, è quella ripotata in nota 11, e sul problema non risulta ancora formatasi una consolidata dottrina e giurisprudenza.
In conclusione, e volendo sintetizzare quanto sopra:
Alla luce di quanto sopra, data la delicatezza della materia, bisognerà prestare molta attenzione in sede di circolazione dei terreni gravati da usi civici. Fondamentale, quindi, risulta il riconoscimento degli usi civici e il Notaio, nei limiti della pubblicità risultante dai pubblici registri, potrà fornire adeguata assistenza alle parti, al fine di perfezionare un contratto valido ed efficace. Ad ogni modo, sarebbe auspicabile che si istituisse un registro pubblico Nazionale dal quale possano emergere gli usi civici ovvero si imponesse la loro menzione quantomeno nei “certificati di destinazione urbanistica”.
[1] Per una raccolta completa delle sentenze della Corte di Cassazione in materia di usi civici: https://www.demaniocivico.it/sentenze/giurisdizionisuperiori/giurisdizionisuperioriocassazione
[2] Per quanto attiene alla natura giuridica degli usi civici, è necessario distinguere gli usi civici gravanti su terreni di proprietà privata dagli usi civici gravanti su terre “collettive”. Per i primi è pacifico il loro inquadramento nella categoria giuridica dei diritti reali su cosa altrui, discorrendosi, peraltro, sulla loro riconducibilità al diritto di uso, di usufrutto ovvero ad un diritto reale atipico. Per i secondi (cc.dd. domini collettivi) è diffusa, invece, l’opinione che essi rappresenterebbero una forma di contitolarità analoga alla comunione di tipo germanico c.d. “a mani riunite”, ossia senza quote.
[3] Si riporta l’art. 30, commi quarto e ultimo, d.P.R. n. 380/2001:
[4] Per quanto attiene alla difficoltà di riconoscimento degli usi civici, vds Corte di Appello di Roma sentenza del 15 dicembre 2020, la quale ha sottolineato come nel caso di specie sia applicabile l'art. 2236 c.c. per la speciale difficoltà della soluzione del problema tecnico (“Il Notaio non è responsabile per la mancata rilevazione che l'immobile offerto in garanzia all'istituto mutuante sia stato edificato su "terre civiche" gravate da usi civici, ove abbia espletato "tutti i dovuti controlli presso i Registri Immobiliari e gli Uffici del Catasto" senza che emergesse la particolare natura dell'area di sedime e i diritti su essa insistenti”).
Si precisa che la complessità della fattispecie è ben nota anche al Legislatore. Nel corso degli anni sono stati presentati diversi progetti di legge contenenti modifiche alla vigente normativa catastale per l’istituzione di un’apposita sezione del catasto dei terreni soggetti ad uso civico, ovvero di garantirne idonea pubblicità per il tramite di aggiornati archivi tenuti dai competenti enti locali.
[5] Cass. civ., ord. 18 settembre 2019, n. 23323.
[6] Detti anche beni collettivi, ossia di terreni appartenenti all'intera collettività (intesa quale abitanti del luogo), sia come gruppo che come singoli. La collettività, peraltro, non costituisce un soggetto giuridico distinto dai singoli abitanti, in quanto i terreni appartengono a questi ultimi sotto forma di comproprietà (in merito a tale qualificazione giuridica si veda la precedente nota 2). Quindi, il Comune, o l'associazione agraria, a cui molto spesso sono intestati catastalmente i terreni, hanno sì un dominio sul bene, ma limitatamente alla rappresentanza della collettività e alla regolamentazione dell’esercizio dei poteri e delle facoltà. È per questo motivo che l’intestazione catastale del terreno risulta essere un forte indice di presunzione civica.
[7] Cass. Civ. n. 19792/2011 in tema di non assoggettabilità del bene ad espropriazione forzata; Cass. civ. n. 1940/2004 in tema di nullità della cessione tra privati di beni comunali gravati da uso civico; Cass. Civ. n. 11993/2003 che considera le proprietà gravate da usi civici come beni del patrimonio indisponibile del Comune, totalmente inalienabili.
[8] L’articolo 21 della Legge n. 1766/1927 recita:
[9] Corte Cost. 71/2020, nella cui motivazione viene analizzata la compatibilità dell’autorizzazione ex art. 12 Legge 12 con la tutela paesaggistica-culturale.
[10] Corte Cost. n. 113/2018, che ha dichiarato incostituzionale l’art. 8 Legge Regionale Lazio; per la Legge Regionale Sardegna, vds. Corte Cost. n. 178/2018; per la Legge Regionale Calabria, vds. Corte Cost. n. 71/2020.
[11] Cass. Sez. Un. Ord. n. 5644/2019.